martedì 20 giugno 2017

"TRIP THE DARKNESS"



«Non è la vita a fornire i modelli ma le storie. È difficile costruire storie alle quali adeguare le vite. Possiamo soltanto rinarrare e vivere secondo le storie che abbiamo letto o sentito. Viviamo la nostra vita attraverso i testi» (Heilbrun, 1998)

In letteratura, troviamo importanti descrizioni di strategie per la creazione di metafore e storie, comprensive anche di tecniche volte a far nascere la storia dalla stessa immaginazione del bambino, oppure modificarla o rinarrarla, come nella tecnica di narrazione reciproca di Gardner, giusto per citarne una.
L’autore parte proprio dal piacere che i bambini provano sia nel raccontare, che nell’ascoltare storie. Il suo metodo consiste nel cominciare usando un’introduzione prestabilita quindi, dando una serie di istruzioni sulla storia che va creata. Essa deve avere alcune caratteristiche quali, l’essere avventurosa, eccitante, non deve riguardare cose viste in tv o in un film, né tantomeno esperienze reali del bambino. Ma, ancora, la storia deve avere un inizio, una parte centrale, una fine e, soprattutto, deve avere una morale. Quando il bambino ha creato una storia, il terapeuta la analizzerà a fondo per andare a cercarne il significato psicodinamico. Fatto questo, utilizzando gli stessi personaggi e la stessa ambientazione scelti dal bambino, crea un’altra storia introducendo, però, degli adattamenti più salutari rispetto a quelli presentati dal bambino.

Le ricerche riguardo l’uso terapeutico della metafora della narrazione di storie, sia con i bambini, che con gli adulti, sono proliferate nell’ultimo decennio e, tante e varie, sono le applicazioni che in psicoterapia hanno fatto ricorso alla metafora come modalità di trattamento, vuoi principale, vuoi ausiliario.

Come è possibile dunque creare quella realtà fenomenologica condivisa (Rossi, 1972) attraverso la quale la metafora terapeutica perviene al suo scopo? In una analisi comparata delle fiabe classiche è possibile constatare che al loro interno esistono moltissimi elementi o ingredienti narrativi.
In particolare:
  il protagonista vive un conflitto metaforico;
 … se pensiamo alla fiaba del Brutto anatroccolo di Andersen (1954), stiamo parlando del momento in cui l’anatroccolo nasce con il suo aspetto buffo, diverso dai fratelli e da tutti gli altri volatili dell’aria.
I processi inconsci vengono personificati in forma di eroi o soccorritori (le capacità e risorse del protagonista) ma, anche di ostacoli o furfanti (paure e convinzioni negative) e vengono personificate situazioni di apprendimento parallele in cui il protagonista ha avuto successo;
… è la madre dell’anatroccolo, l’unica a vedere suoi lati buoni e a riconoscergli la possibilità di migliorare enunciando i suoi processi inconsci sotto forma di capacità e risorse (l’indole buona, il saper nuotare benissimo).
Si manifesta una crisi metaforica all’interno di un contesto di ineluttabile soluzione, conseguentemente alla quale il protagonista supera o risolve il proprio problema;
… l’anatroccolo se ne va, dal momento in cui i maltrattamenti nei suoi confronti non fanno che peggiorare. Vola verso la palude sperando di trovare accoglienza da parte delle anatre selvatiche. In realtà, non trova questo e la crisi metaforica si manifesta nel momento in cui la palude viene improvvisamente circondata dai cacciatori e dai loro cani. Il brutto anatroccolo è l’unico che sopravvive all’uccisione di tutti gli animali e si ritrova solo nell’inverno desolato e freddo.
Il protagonista quindi acquisisce un nuovo senso di identificazione proprio per effetto di questo vittorioso viaggio dell’eroe;
 … passato l’inverno si specchia nell’acqua, dove scorge la sua nuova bellissima immagine. L’avere patito tante miserie e avversità gli permette di poter apprezzare l’essere felice. «Era troppo felice ma non superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo».
Alla fine assistiamo alla celebrazione in cui avviene il riconoscimento del valore straordinario del protagonista;
… nel momento in cui i vecchi cigni si inchinano davanti a lui.

Le fiabe, dunque, sono una forma d’arte peculiare, non solo divertono, ma consentono al bambino di promuovere lo sviluppo della sua personalità, arricchendo la sua vita. È Bettelheim, colui il quale ci fa riflettere sul fatto che il bambino possa imparare dalla fiaba cose riguardanti problemi interiori dell’essere umano ma, non solo, anche le soluzioni che più si addicono a risolvere eventuali difficoltà, in un modo che non sminuisce l’importanza e la gravità del disagio derivate dalla lotta interna che il crescere porta con sé.






Fonti:
M. WHITELa terapia come narrazione. Proposte cliniche. Roma, Astrolabio, 1992
J.C. MILLS, R.J. CROWLEY, Metafore terapeutiche per i bambini. Roma, Astrolabio, 1988
B. BETTELHEIM in P. BARKER, L’uso della metafora in psicoterapia, Roma, Astrolabio, 1987