giovedì 17 settembre 2015

ORIENTAMENTO E NARRAZIONE


 “L’universo narrativo crea una identità e l’identità aiuta le persone a dare un senso a quello che fanno” (Fontana, 2014)


Uno dei compiti più complessi degli adulti, in quanto genitori o insegnanti, è quello di accompagnare e aiutare i ragazzi di cui si occupano nel difficile PROCESSO di ATTRIBUZIONE di SIGNIFICATO all’ESISTENZA ovvero, apprendere a conoscersi meglio, acquisendo così anche la capacità di capire gli altri e orientarsi nel mondo, relazionandosi in modo sempre più efficace con situazioni e persone.
Le Indicazioni Nazionali per il Curricolo entrate in vigore con il D. M. n. 254 del 16 novembre 2012, definiscono chiaramente che, obiettivo della scuola sia “formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri”. Ogni singolo alunno è posto al centro di ciascuna proposta didattica laddove le discipline di studio diventano mezzi per la crescita della persona, fine ultimo di ogni azione educativa e didattica. Il sistema scolastico assume come orizzonte di riferimento il quadro delle competenze chiave per l’apprendimento permanente (definite dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea – Raccomandazione del 2006) secondo le quali, ogni alunno dovrebbe, sviluppare CONOSCENZE, ABILITA’, ma anche COMPETENZE e, quindi, capacità di utilizzare conoscenze, abilità e, in genere, tutto il proprio sapere, in situazioni reali di vita e lavoro.
Se ORIENTAMENTO, allora, è ATTIVITA’ FORMATIVA che sviluppa competenze,
     ORIENTARSI significherà:
                                   * imparare a PROGETTARE
                                                * imparare ad AUTOVALUTARSI                      
                                                           * imparare a FARE SCELTE CONSAPEVOLI
Non è banale riflettere ancora una volta sulla difficoltà che una società come la nostra ha nel dare riferimenti certi, ”riti” che definiscano chiaramente passaggi. Difficile dare un senso a ciò che accade e all’imprevedibilità dell’accadere rispondendo alla domanda di “accompagnare gli alunni ad elaborare il senso della propria esperienza”. Genitori, docenti, esperti, siamo tutti chiamati in causa.

Ma, QUALI METODI e QUALI PRASSI possono portarci verso obiettivi così ambiziosi?

L’APPROCCIO NARRATIVO: PERCHE’?
L’uso della narrazione ha molteplici funzioni tra le quali fornire una struttura alla realtà medesima.
La narrazione è, infatti, un processo cognitivo che consente di promuovere la consapevolezza e l’autoregolazione emotiva.
La narrazione è strumento essenziale per lo sviluppo emozionale (Harris, 91).
Tramite la narrazione possiamo rappresentarci credenze, pensieri e desideri che sono alla base di specifiche “emozioni”, dando luogo a script complessi ma coerenti, dove eventi, azioni e stati mentali si combinano dando luogo a specifiche esperienze emozionali.
Tanto la comprensione che la produzione di storie richiedono abilità cognitive e sociali, in particolare, capacità di empatia e disponibilità all’identificazione.

L’APPROCCIO NARRATIVO: QUALI FUNZIONI?
Ecco che, allora, utilizzare la narrazione può voler dire:
COMUNICARE in un modo comprensibile al ragazzo.
I personaggi sono presentati attraverso immagini chiare e generalmente sono in maniera esclusiva o buoni, o cattivi caratteristiche che permettono l’identificazione con essi.
2. rendere possibile che esperienze che altri vivono nel superamento di difficoltà e che sono simili a quelle che stanno vivendo in quel momento suggeriscano in modo diretto o indiretto, ALTERNATIVE o possibilità di affrontare la sua situazione, fornendo stimoli, incoraggiamenti e forza necessaria.
3. trovare una CHIAVE, una modalità che consente di aprirsi al mondo interiore, dal momento in cui essa parla il linguaggio delle sue emozioni più profonde.
5. entrare in CONTATTO con la profondità del nostro essere e della nostra esistenza in completa sicurezza, senza incorrere in rischio alcuno: non siamo noi a compiere le azioni, ma i personaggi della storia i quali, però, nel loro agire ci consentono di vedere le situazioni che stiamo affrontando secondo differenti sfaccettature e angolazioni: possiamo uscire dal guscio interiore dandoci però la sensazione di non esserci esposti veramente.

Se narrare è assumere una prospettiva metaforica, fare questo vuol dire, in sostanza, svincolarsi dalla rigidità di proposte poiché, in quanto adulti, dovremmo essere maggiormente consapevoli della creatività di cui abbiamo bisogno per aiutare il bambino o il ragazzino e preoccuparci di quale posto occupi il gioco nella nostra relazione con lui, quando lo abbiamo di fronte. Il processo culturale, come dice Winnicott, prende l’avvio proprio nell’area potenziale dove si struttura il gioco.


Fonti: 

giovedì 3 settembre 2015

... DELLA METAFORA IN TERAPIA ...

Che cosa deve fare, allora, una metafora per potere avere efficacia in psicoterapia infantile? Rossi (1972) dirà che la funzione importante della metafora in terapia è probabilmente la sua capacità di dar vita a una realtà fenomenologica condivisa per cui il bambino sperimenta il mondo che il terapeuta crea con la metafora. È questo, quel processo che consente al bambino, al terapeuta, alla storia di entrare in empatia. Il bambino potrà identificarsi con i personaggi e con gli eventi che verranno descritti: qui troviamo la forza di trasformazione della metafora (Gordon, 1978). In questo modo, infatti, il bambino non si sente isolato, riesce a creare un ponte fra la propria vita reale e gli eventi della narrazione. In un processo all’interno del quale si percepisce un senso di esperienza condivisa, il bambino può, nello stesso momento, guardare il problema e rimanerne distante, attivare risorse e capacità, ma non sentirsi minacciato. Il bambino passa dal dire “Nessuno ha il mio problema” al “Loro avevano un problema come il mio”. Tale connessione, però resta inconscia. Infatti, qui sta la finezza della metafora terapeutica: «che la storia coglie nel segno, ma lo fa curiosamente di lontano; ossia punta al problema, ma se ne tiene tacitamente alla larga; attiva capacità e risorse specifiche, ma lo fa in forma generica, non minacciosa»

Fonti:
J.C. MILLS, R.J. e CROWLEY, Metafore terapeutiche per i bambini

venerdì 28 agosto 2015

BAMBINI, FIABA E PSICOTERAPIA



Il campo della psicoterapia infantile è vasto, complesso e articolato. Oggi, infatti, le tecniche di intervento sono sempre più numerose e differenti i fondamenti teorici su cui si basano. Difficile pensare di poterle descrivere tutte. Gli elementi in gioco sono molti e, nel caso di un intervento con il bambino dobbiamo considerare almeno tre relazioni da gestire: quella con il bambino, appunto; quella con i genitori; quella con gli altri significativi nel suo contesto di vita.
Inoltre, in età evolutiva, c’è da tener presente che numerosi sono «i comportamenti apparentemente patologici che in realtà costituiscono delle preforme di una organizzazione mentale: se così non fosse, quasi tutti i bambini dovrebbero essere considerati come “malati” e giustificare un trattamento».
Il bambino in terapia è colui che porta un disagio, vero o presunto e non possiamo pensarlo come soggetto capace di essere consapevole di un disturbo psichico in quanto tale. Amare l’infanzia, mettere al centro del lavoro terapeutico il bambino, utilizzare tecniche non finalizzate al sintomo o alla conferma o meno di una ipotesi di lavoro, questi sono solo alcuni dei presupposti umani e tecnici che dovrebbero farci da guida nella psicoterapia infantile.
In primo luogo, seguiamo le considerazioni di Palacio Espasa (1995) in merito al fatto che oggi, in campo psicoanalitico, si fatichi a trovare una linea comune e che ci sia una crisi dei modelli di fronte ad esigenze di risposta che investono campi sempre più vasti e differenziati. C’è una crisi di crescita legata all’impossibilità di individuare la priorità, la maggiore efficacia di una tecnica rispetto all’altra e l’impatto dei singoli fattori specifici.
Tutto questo in relazione alle diverse età del bambino, alla natura del suo funzionamento mentale e alla sua patologia.
Oggi, in sostanza, assistiamo a due fenomeni:
- una disaffezione da parte degli analisti verso il lavoro terapeutico con i bambini;
- il diffondersi delle cosiddette “epidemie”, in particolare nell’ambiente americano: autismo, ADHD, sindrome bipolare, definite, appunto, come le “epidemie” che nell’ultimo decennio hanno interessato il mondo dell’infanzia. Le considerazioni del caso sono facilmente estendibili al panorama italiano.
La seconda riflessione riguarda più specificatamente gli aspetti metodologici in riferimento agli esiti delle psicoterapie in età evolutiva.
In primis, le considerazioni di Ammaniti ed Ortu sugli studi di Levitt e di Casey e Berman (1985), i risultati dei quali ci mettono in guardia dallo stabilire una affrettata equivalenza fra la validità clinica di una terapia e la sua efficacia valutata sulla base di sperimentazioni controllate. Gli stessi autori, sempre all’interno di ricerche volte alla dimostrazione dell’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici nei bambini, avanzano il “paradosso dell’equivalenza” rispetto al quale «tutte le terapie, indipendentemente dai presupposti teorici e dalla tecnica utilizzata, dimostrano la stessa efficacia terapeutica».
Allora, a fronte di un interesse abnorme per i bambini e le loro problematiche, di cosa ci si occupa effettivamente in psicoterapia infantile?
Alla luce della complessità dell’analisi, sposteremo la nostra attenzione su un elemento che ci sembra possa rappresentare un momento di confronto, più che di scontro fra le varie scuole: la metafora, perfettamente consapevoli del fatto che questo sia solo uno dei possibili modi di interagire con la patologia, quindi non l’unico e sicuramente criticabile.
La fiaba è e può rappresentare, in tal senso, un potente strumento terapeutico. Il linguaggio del metaforico è un linguaggio simbolico: le fiabe, per questo motivo attirano l’attenzione del bambino e favoriscono in lui l’attivazione di processi di immedesimazione che, nel momento in cui ne sanificano i conflitti interiori aiutano a trovare soluzioni mentre calmano l’angoscia. Non dimentichiamo che la psicoanalisi nasce e poggia il suo intervento terapeutico sulla dimensione simbolico-verbale.
Molte, le funzioni psicologiche e psicoterapeutiche cui la fiaba assolve, tra cui l’appagamento di desideri nascosti, piuttosto che la possibilità di esorcizzare elementi negativi del reale. In ogni caso, rappresenta per il bambino una via privilegiata per entrare in contatto con le proprie funzioni psicologiche. Come afferma Bettelheim (1977) l’uso della fiaba è un “possibile strumento che, attraverso il simbolo, fa chiarezza nel caotico mondo intrapsichico infantile”. La fiaba parla nel linguaggio simbolico e in questo linguaggio esprime fenomeni psicologici interiori. «Le fiabe indirizzano il bambino verso la scoperta della sua identità e suggeriscono le esperienze necessarie per sviluppare il suo carattere. I personaggi e gli eventi delle fiabe personificano conflitti interiori e suggeriscono in maniera sottile come possono essere risolti».
Elemento di sviluppo della creatività, la fiaba diventa nel contempo strumento di comprensione del proprio mondo interiore e relazionale. Le storie parlano al bambino incoraggiando lo sviluppo del suo Io semplificando le situazioni, facendo cogliere gli elementi essenziali del problema.

Fonti:
- D. MARCELLI, Psicopatologia del bambino
- F. PALACIO ESPASA, Psicoterapia con i bambini
- P. FONAGY, M. TARGET, D. COTRELL, J. PHILLIPS, Z. KURTZ, Psicoterapia per il bambino e l'adolescente
- B. BETTELHEIM, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe

domenica 29 marzo 2015

FIABA, FAVOLA E MITO

La fiaba trova le sue radici nella tradizione popolare.
Dal punto di vista letterario essa è un tipo di narrativa al cui interno ritroviamo creature fantastiche, esseri soprannaturali e, in tal senso, si differenzia dalla favola nella quale, invece, i protagonisti sono generalmente animali antropomorfizzati e dalle cui avventure traiamo sempre un insegnamento morale, più o meno esplicito.

Impossibile, non fare un confronto fra mito e fiaba nel momento in cui entrambi rappresentano un conflitto interiore in forma simbolica e suggeriscono il modo in cui esso può essere risolto. Però, il mito, rappresenta il tema in forma grandiosa, laddove gli eroi sono esseri sovrumani ed è quindi difficile potervisi identificare, dal momento in cui noi umani saremo sempre inferiori ad essi. 

La fiaba, diversamente dal mito, non pone richieste, non fa sentire inferiori, anche il bambino può identificarsi con i personaggi: Cappuccetto Rosso è l’esempio classico di come posso superare l’angoscia di essere bambino in un mondo di grandi

Fonti: 
- Bettelheim, "Il mondo incantato"

giovedì 19 marzo 2015

CHE COS'E' LA FIABA

Marie-Louise von Franz definisce la fiaba come l’espressione più pura e semplice dei processi psichici dell’inconscio collettivo: il linguaggio della fiaba è, in qualche modo un linguaggio che appartiene a tutta l’umanità, a tutte le età, a tutte le razze e civiltà. 
Fiabe e racconti sono narrazioni che parlano, a chi ascolta o a chi legge, della condizione umana: pensiamo alla storia di Cenerentola, nella quale si tratta del maltrattamento dei figliastri prima ancora che l’abbandono, la violenza e lo sfruttamento dei bambini fossero temi di dibattito generale. Questa storia è la storia di angoscia, umiliazione, speranza, sentimenti costitutivi dell’essenza della rivalità fraterna. Se da una parte c’è Cenerentola bella, buona e virtuosa di contro, abbiamo le sorellastre brutte, poco virtuose che le fanno subire continui maltrattamenti ed umiliazioni. 
Il bambino che ascolta tale fiaba pensa “io sono cenerentolo” e, in tal modo si identifica con lei perché interiormente prova sentimenti di rivalità nei confronti dei propri fratelli, sentendosi da loro oltraggiato ed umiliato. 
Come afferma Bettelheim (1977) il bambino crede che possa esserci una liberazione e una vittoria finale di Cenerentola.

Fonti:
- Bettelheim, "Il mondo incantato"
- M. von Franz, " Le fiabe interpretate"


mercoledì 18 marzo 2015

DEL FEMMINILE NELLA FIABA E DEL PRINCIPE AZZURRO

   Se dovessi fare una riflessione a 360 gradi sulla questione, dovremmo sicuramente partire da una panoramica sul femminile all’interno della letteratura per l’infanzia e al modello che viene trasmesso, attraverso questa, alle nostre figlie. Per anni i protagonisti di racconti e storie sono stati solo maschili (Pinocchio, Peter Pan…)
Mi viene in mente un libro della Belotti “Dalla parte delle bambine” dove già si discuteva in merito a “questioni di gender” e nel quale si sostiene che i condizionamenti culturali non solo sono alla base delle formazione differenze di carattere ma veicolino, di fatto, anche l’immagine di un uomo “naturalmente” superiore a una donna che le è, “naturalmente” inferiore e, cito testualmente:
“Cappuccetto Rosso è la storia di una bambina al limite dell'insufficienza mentale che viene mandata in giro da una madre irresponsabile...”

“Biancaneve è anche lei una stolida ochetta che accetta la prima mela che le viene offerta … anche lei vive con la testa nel sacco ...”

“Cenerentola è il prototipo delle virtù domestiche, dell'umiltà, della pazienza, del servilismo, del sottosviluppo della coscienza…  Anche lei non muove un dito per uscire da una situazione intollerabile, ingoia umiliazioni e sopraffazioni, è priva di dignità e di coraggio. Anche lei accetta il salvataggio che le viene da un uomo come unica risorsa, ma non è poi certa che costui la tratterà meglio di quanto sia stata trattata fino allora”

In tempi diversi Roberto Denti scrive di una Cenerentola che, provata la scarpetta, rifiuta la richiesta del principe di sposarla per scegliere un tale Maurizio con il quale decide di lavorare nei campi, allevare galline, mungere mucche e fare tanti figli.
In sostanza, mi trovo d’accordo con Bettelheim quando dice che le fiabe rappresentino in forma fantastica ciò in cui consiste il processo del sano sviluppo umano.
   Cappuccetto Rosso sta “cercando di comprendere la natura contraddittoria del maschio e sperimentando tutti gli aspetti distruttivi della sua personalità: le tendenze egoistiche, asociali, violente, potenzialmente distruttive dell'Es (il lupo); le propensioni generose sociali, sollecite e protettive dell'Io (il cacciatore).

Gli anni trascorsi da Cenerentola in mezzo alla cenere dicono al bambino che nessuno può sfuggire a questa esperienza. Ci sono momenti in cui sembra che esistano soltanto forze ostili. Che non ne siano in vista di favorevoli …In certi momenti l'infelicità del bambino è così profonda che sembra durare all'infinito.

Cenerentola deve soffrire in intensità e in durata quanto il bambino crede di soffrire, perché la sua liberazione risulti convincente e gli offra la certezza che lo stesso accadrà nella sua vita”

Ergo, Cenerentola si riscatta grazie ai propri sforzi e alla propria personalità, non in virtù della scelta del principe.

   “Che una figura femminile, poi, sia la protagonista di un racconto non significa certamente che la fiaba parli dei problemi delle donne, perché molte storie che descrivono le avventure o le sofferenze di una donna sono state raccontate dagli uomini e sono proiezioni della loro immaginazione, esprimono le loro aspirazioni e le difficoltà a vivere il proprio lato femminile e a entrare in rapporto con le donne” (M. Von Franz)
Non ho gli strumenti per leggere in modo analitico e faccio, in conclusione, una lettura spicciola e da “ignorante”, sperando di non banalizzare.

Se da un lato, il principe simboleggia l’archetipo dell’eroe, l’ideale di giovinezza, di bellezza che diventano valore e forza vincente, legato a ciò che deve compiere, alle responsabilità che ne conseguono, compreso l’accettazione del principio femminile opposto, la principessa, dal canto suo è femminilità idealizzata, dolcezza, purezza, innocenza ma, anche bontà e generosità.

E’ vero, allora, che entrambi diventano in qualche modo simbolo di ideali romantici ma, nel contempo sono importanti aspetti psichici del maschile e del femminile in fieri, in accettazione del loro divenire adulti.
La fiaba nella versione edulcorata della Disney forse c'entra poco e niente.
Le versioni originali delle fiabe dei Grimm, infatti, sono spesso crude e non sempre vi è il lieto fine. L'aspetto fondamentale è leggerle come le leggono i bambini, attraverso il loro linguaggio, principalmente metaforico e simbolico.

   Le donne che aspettano ancora il principe azzurro allora, forse hanno ben altri problemi che aver letto Biancaneve o Cenerentola da piccole, a mio parere. Mi preoccupo più di quelle adulte che leggono le "sfumature" aspettando il tipo figo che le ammanetti nella stanza rossa vivendo un non comprensibile processo identificativo con una dipendente affettiva vs un narcisista patologico.


Fonti:
- Belotti, "Dalla parte delle bambine"
- Bettelheim, "Il mondo incantato"
- M. von Franz, "Il femminile nella fiaba"


Che una figura femminile, poi, sia la protagonista di un racconto non significa certamente che la fiaba parli dei problemi delle donne, perché molte storie che descrivono le avventure o le sofferenze di una donna sono state raccontate dagli uomini e sono proiezioni della loro immaginazione, esprimono le loro aspirazioni e le difficoltà a vivere il proprio lato femminile e a entrare in rapporto con le donne 
M. Von Franz

La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi; essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo
G. Rodari